Michele Bravi racconta “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi”

Michele Bravi ha pubblicato un disco molto cinematografico, che scava dentro. Richiede però la disposizione da parte nostra a un ascolto non distratto.

A me la musica di Michele Bravi è sempre piaciuta, trovo questo “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” un disco interessante, ma per la maniera in cui è stato concepito gli assegno 2 Franci pop.

Michele Bravi è tornato con nuova musica e un nuovo album dal titolo “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi”, fresco di pubblicazione.

Michele Bravi racconta tanto delle sue canzoni, cioè, racconta tanto di sé. A volte penso che sia inevitabile per lui riconoscersi nella forma del concept album, che di solito è articolato e profondo, ogni tanto anche complesso. Infatti anche questo è il caso, anche se però si ascolta con semplicità: certo, sono canzoni che esigono un ascolto non distratto, per esprimere tutto il loro potenziale. “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” ti parla fissandoti, e lo fa partendo dagli scritti del neurologo Oliver Sacks. È proprio agli scritti di questo studioso che Michele Bravi si è liberamente ispirato, andando a indagare le profondità dell’esistenza umana al di là della percezione del reale e la necessità dell’individuo di un racconto interiore continuo come unico mezzo per conservare la propria identità.

Il disco raccontato da Michele Bravi

C’è lo zampino di un altro libro, dietro la nascita di questo disco. “Mi trovavo in un momento di blocco artistico”, ha raccontato Michele, “Anche se non so se sia il caso di caricarlo così tanto di dramma. Di fatto comunque non scrivevo. Avevo lì un libro, “La via dell’artista” di Julia Cameron, che contiene un percorso da seguire con assoluta serietà. Faccio questo corso, che si svolge con esercizi da fare senza chiedersi troppo il perché. Questo gioco mi ha sbloccato, dopo 5 settimane: non ho terminato tutto il percorso, ormai avevo ritrovato il bandolo della matassa”. Ma, appunto, c’entra anche Sachs: “Mi viene regalato “Musicofilia” di Oliver Sachs. Leggo questo saggio, genere che di solito non affronto perché è lontano dal mio gusto; il libro ragiona su cosa vuol dire percepire la realtà in maniera diversa – si tratta però di disturbi legati al suono. Trovo nel saggio questa parola, palinopsia, un disturbo ottico che è come la ripetizione di una percezione. La palinopsia come l’arte è un tentativo di ripetere il reale, una percezione di quello che ci sta attorno. Ho deciso che doveva essere questo il concept del disco”.

Continua ancora Michele: “Il disco si costruisce su sinestesie (per me il lunedì è giallo, per esempio) e metafore. La prima metafora che mi è stata insegnata alle elementari mi è rimasta impressa: barca è la luna. Tornando al disco, ogni canzone risponde alla domanda ‘immagina se’. Metaforicamente dico cose vere nelle canzoni, ma concretamente non lo sono. Dormire sul tuo respiro non vuole dire niente ma se quelle parole le lasci entrare in te si apre tutto uno scenario”.

La costruzione di questo disco mi pare più semplice a farsi che a dirsi. Ma non è tutto: “Avevo difficoltà a trovare un titolo. Parlando di neuroscienze ho pensato di parlare di immaginazione. Questo disco ha questa conclusione, che sarebbe ‘raccontami la tua storia’. Cioè, qual è la palinopsia che hai vissuto dentro di te? Il disco celebra la vita interiore”. Ok, ma non è tutto. L’album si compone di tre parti. “Lo sguardo” è la prima, ed è “La riflessione di quello che vediamo con gli altri, e comprendere i primi 4 brani. Per la prima volta sono produttore di alcune canzoni del disco, per il resto ho collaborato con produttori urban e che lavorano in mondi distanti dal mio”. Ancora: “La seconda parte è “L’immagine”, quello che vediamo degli altri. “L’iride” è l’ultima parte, quella in cui entro più nel momento sfacciatamente cinematografico del disco ed approfondisco il concept. ‘Qual è la parte che tu non vuoi che io veda’ è la domanda che mi pongo. Il titolo del disco nasce dall’ultimo brano, dove c’è nel testo la frase che poi è stata scelta come titolo. Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi è un appunto che non so nemmeno quando ho scritto. L’ho trovato su uno dei tanti vecchi quadernetti dove mi scrivo tutto, ma non so se l’ho scritta dieci anni fa o una settimana prima di quando l’ho riletta”. Tutto chiaro, certamente però la costruzione del tutto è complessa: “Questo disco è nato come un atto di presunzione”, spiega Michele, “Voglio scrivere e produrre da solo. Adesso che è finito ed è un orgoglio presentarlo, posso dire che è il disco che volevo fare. Ho scoperto in me un’autonomia diversa, mi riconosco praticità nel concretizzare le cose. Questa è stata una grande scoperta”. In conclusione, “Al primo ascolto ho pensato che questo album fosse terribile, che non funzionasse, che fosse troppo cinematografico. Piaccia o non piaccia, la mia musica è questa: è l’unico disco che posso fare e lo accetto. So che è un album estremo per alcune scelte artistiche”. Sta a noi ascoltarlo e, se vogliamo, darne una definizione.